FRISCO   ​ART

FRISCO    SENZAVOLO  

CURATED BY  MARIA ARCIDIACONO  marzo 2023

Senza volo è un viaggio tra fotogrammi di esistenze sconosciute, i cui percorsi sono andati a intersecarsi con quelli di Frisco. Il significato del titolo si riferisce a una libera scelta dell’artista che predilige i mezzi di trasporto lenti e frequenta gli aeroporti lo
stretto necessario, solamente quando la distanza della meta lo impone; ma “senza volo” è anche l’umanità che ritrae, alla quale è spesso preclusa la possibilità di viaggiare liberamente.
Scardinati e ricomposti nelle loro volumetrie, riemergono nitidi sulle tele dell’artista i protagonisti di questi viaggi dei quali portano il nome: Bangladesh, Congo, Ghana, India, Kurdistan, Myanmar, Nigeria, Senegal, Siria, Mama Africa, Polonia, Cambogia. In uno scorrere di ritratti, due opere si presentano affollate: Palestina e
Mediterraneo; in quest’ultima, i confini sono pressocché circoscritti a un frammento di imbarcazione, ma si percepisce il tragico orizzonte del mare aperto, così come in Sahara la grandezza dello spazio desertico si concentra nel dettaglio di un volto. Se fossero architetture, le opere di Frisco sarebbero sapienti sovrapposizioni di piani prospettici, e avrebbero come punto di fuga il suo stesso sguardo.
Nei primi anni ‘80, in una Bologna in pieno fermento politico e culturale, Frisco propose una tecnica nuova elaborando i suoi lavori con un processo articolato di stesure in successione: lo spray e lo stencil sono strumenti metropolitani, tuttavia, sottraendoli al vincolo della riproducibilità, Frisco li trasforma in arnesi da bottega,
consegnandoli a una dimensione rigorosamente pittorica. La tecnica si può sempre affinare, come è avvenuto nel passaggio a un uso più intenso del colore, ma Frisco non sembra interessato ad andare oltre, viceversa, mantiene una grande attenzione nel tenere a distanza ogni omologazione o facili scorciatoie.
Senza volo potrebbe essere definito il compendio di un reportage personalissimo, nel quale la serie di paesaggi, urbani, rurali o con la linea del mare all’orizzonte, si riassume negli infiniti sguardi di testimoni muti di fronte a tragedie immani. Guerra, miseria,
sfruttamento irrompono da tutte le latitudini sulle tele di Frisco, con tutta l’urgenza di dare ulteriore senso al suo essere artista. La volontà di denuncia nelle sue opere non è di maniera, perché è frutto di un processo di sedimentazione ragionata sia sul piano
intellettuale che nella pratica vera e propria, dove non sono concesse inesattezze (“Questo quadro è freddo” “Queste tre macchioline hanno rovinato tutto il lavoro, devo rifarlo”).
Frisco pianifica i propri spostamenti stabilendo una permanenza di qualche mese nella meta prescelta, l’esperienza del viaggio non può essere effimera, la sua visione è l’esatto opposto della retorica turistico-vacanziera. Accade così che a quello del vero viaggiatore spesso si sovrappone lo sguardo del “militante”. Perché il suo è anche un lavoro politico, nella cui ricerca è del tutto assente quella topografia del dolore spettacolarizzato, non c’è la caccia morbosa a scovare e documentare il male del mondo; l’artista semplicemente si imbatte nelle dure realtà di terre dimenticate ed è lì che gli scorci di volti e corpi smarriti si fanno denuncia. L’irruzione del colore in queste opere recenti, sebbene declinato con le consuete modalità, sembra rappresentare il desiderio che quell’istante di autenticità permanga e non si trasformi velocemente in ricordo. Viaggio, scatto fotografico, ricostruzione pittorica sulla tela: Frisco organizza per sequenze il suo racconto di una umanità dolente, sognante, talvolta combattiva, che ci osserva e in parte, silenziosamente, ci accusa: Senza volo è il disinteressato
invito di un artista a riflettere sul nostro tempo, riferimento e parametro immutabile dell’azione artistica, insopprimibile per chiunque se ne voglia rendere protagonista.

FRISCO: LA REALTA’ DEL REALE

Volendo illustrare i lavori di Frisco è necessaria una premessa, non solo sostanziale nel chiarire il metodo operativo dell’artista, ma che apre una finestra su quella che è la capacità creativa in generale nel fare arte a dispetto delle evoluzioni tecnologiche, viste spesso come un superamento dell’uso “tradizionale” di mezzi e colori fatti di corpo e pigmenti. A prima vista i lavori di Frisco potrebbero apparire come elaborazioni di immagini al computer frutto dell’utilizzo di software applicativi più o meno sofisticati e invece l’artista ha elaborato questa modalità espressiva già prima che la “computer graphic” cominciasse ad aprire la strada dell’espressionismo digitale e ha autonomamente proseguito il suo percorso creativo usando stencil, acrilici, spray, accostamenti e sovrapposizioni di maschere coprenti e colori. Quanto detto è essenziale perché mette in rilievo il desiderio e la capacità dell’artista di trasferire in modo concreto e diretto sulla superficie dipinta il proprio sentire espressivo. Scrivendo di Frisco devo aggiungere una seconda premessa, questa volta personale. Ritengo che niente può essere più dirimente nella significazione dell’opera di un artista di quanto l’opera stessa sia capace di esprimere nei riguardi del proprio autore, per cui ho l’abitudine, nella trattazione di artisti contemporanei, di non parlare prima delle loro ragioni e del loro vissuto, per non lasciarmi in qualche modo influenzare nella focalizzazione di quanto l’opera riesce a trasmettermi. E’ quanto avvenuto anche per Frisco, del quale ignoravo percorso e storia di vita.
Veniamo dunque alle opere. Dai titoli ( Bangladesh, Congo, Ghana, India, Kurdistan, Myanmar, Nigeria, Senegal, Siria, Mama Africa, Polonia, Cambogia,Palestina, Sahara ) si evince distintamente l’esigenza del viaggio, nel senso più pregnate del termine, non è certo il viaggio turistico, non è una ricerca del luogo vetrina, è la ricerca di luoghi reali dove la realtà vera è lontana secoli dagli inutili orpelli delle produzioni artificiose dell’oggi che si autocelebrano e autoalimentano, luoghi reali dove la realtà vera è espressa dalle figure e soprattutto dai volti che la abitano. Volti di una umanità senza sorriso, osservata in modo disincantato, volutamente senza un coinvolgimento emotivo, che possa sviare da quanto quegli sguardi vogliono dirci. E’ una umanità di “ultimi” che non grida ai “primi” la rabbia per la loro indifferenza e arroganza, ma guarda con una dignità alta, senza chiedere aiuto o compassione o falsa partecipazione. Guarda senza dolore o se dolore c’è, e necessariamente c’è, non traspare, non deve trasparire come sofferenza, come sconfitta, dev’essere celato, come risorsa che fortifica con la quale sostenersi e procedere con tenacia nonostante tutto quanto di negativo sembri volere prendere il sopravvento. Quando poi Frisco disegna queste figure e questi volti passando dal bianco e nero al colore usa colori vivi, totali, liberatori, come a volere rinfrancare quell’umanità così provata concedendole una via di fuga fatta di luce che possa esaltarne una resistenza fiera alla sentita impossibilità di cambiamento del reale. Disobbedendo alla legge non scritta di non modificare l’opera di un artista, in ”Kurdistan” ho provato il moto spontaneo di ritagliare il volto della donna circondato dall’azzurro del velo, per cui, tolta l’arma e il contesto ne ho ricavato l’immagine di una Madonna rinascimentale compostamente afflitta davanti alla “deposizione del Figlio” a ulteriore dimostrazione che la sofferenza è tale senza un luogo né un tempo e sta a noi riuscire a coglierla realmente senza ipocriti pietismi anche con il tramite di opere come quelle di Frisco.

                                                                                                              (Nello Catinello)
 marzo 2023

Frisco: una folla uscita dall'ombra
 di Marta Del Mutolo
Frisco espone a Fluart, Bologna   ottobre 2021

“Ciò che le immagini vogliono non coincide con il messaggio che esse comunicano o con l’effetto che producono; e non corrisponde nemmeno a ciò che esse dicono di volere. Le immagini, come le persone, possono anche non sapere ciò che vogliono; devono essere aiutate a ricordarselo attraverso il dialogo con gli altri”. Questo afferma W.J.T. Mitchell. La necessità di aprire un dialogo. Un dialogo con quelle immagini che nello stesso saggio vengono considerate come subalterne, paragonabili a quelle categorie inascoltate e quasi auto-celate dalla società. Tali premesse sono a mio avviso cruciali per approcciarsi alla presente esposizione. Le opere di Frisco richiedono allo spettatore un’apertura al dialogo, ad interfacciarsi con loro in una conversazione senza pregiudizi. Pare uno dei rari casi dove soggetto e opera si trovano a richiedere la stessa cosa. Uscire dall’ombra. Prendersi il proprio spazio di espressione con la certezza di avere un pubblico in ascolto. Le immagini qui salgono sul palco per raccontare storie, troppo spesso mal tollerate, di luoghi e di sentimenti. Sono figure forti, che senza paura mostrano la loro disperazione, rabbia, amarezza e perché no in alcuni casi anche serenità come in una raccolta di emozioni quasi Messerschmidt-iana ma dotata di una maggiore partecipazione e delicatezza, perché, ovviamente, non si tratta di studi fisiognomici ma di espressioni di un sentire contestualizzato al soggetto che le vive e che necessita di esprimerle, fiero della propria fragilità in quanto umana e per questo condivisa. Concomitantemente, anche l’immagine, non in quanto soggetto ma in quanto opera d’arte, brama il dialogo. Richiede allo spettatore di lasciare in disparte il consueto modus visitandi, che prevede uno sforzo interpretativo da parte del riguardante, per abbandonarsi all’esperienza dell’ascoltare ciò che l’opera ha da raccontare. E quello che c’è da raccontare sono le persone, a cui di solito non viene dato il privilegio dell’ascolto, e delle quali invece queste tele portano il peso della storia e la responsabilità della divulgazione. Per questo motivo è nostro compito porci davanti a queste opere con animo aperto ad entrare con esse quasi in simposio, per fare in modo che, con i loro colori Pop e la loro tecnica che ha incoronato Frisco come uno dei precursori dello stencil in Italia, perfettamente incorporate negli spazi di Fluart, possano dar voce a se stesse e al contempo alle figure che indossano, mettendo in atto un duplice riscatto, un duplice transito dall’ombra verso la dovuta considerazione e comprensione.

        Funk Bromantico         di Vincenzo Grossi 

 Frisco exhibits @ Aurum - La Fabbrica delle Idee - Pescara   (febbr. 2015)   

L'operare artistico è un modo per venire a patti con il reale, un aggredire e difendersi dal mondo e dai mondi degli altri per affermare il proprio. Quando l'opera appare semplice e finita, bastante a se stessa, completa, precisa e decisa nella sua forza di stimolazione percettiva, è allora che si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un'opera d'arte. E' allora che constatiamo che la ricerca ha prodotto il linguaggio espressivo-comunicativo desiderato e la tecnica è stata messa a punto: ora può iniziare il flusso di emozioni verso il mondo esterno, ora può iniziare la guerra dei mondi.  

Il corpo del messaggio espressivo di Ciancabilla è il suo mondo interno che in questa fase consiste nel recupero mnemonico del proprio piacere estetico procuratogli dalla frequentazione di "un centinaio" di donne, come titolava la precedente mostra. Le varie e diversissime relazioni con le donne che hanno lasciato traccia del loro potere di seduzione sull'artista vengono distillate nella memoria e risintetizzate attraverso una tecnica che solo apparentemente può richiamare le serigrafie della Pop-Art ma che invece trova la sua giustificazione in un originale abbassamento essenzialista della risoluzione grafica pseudo-digitale (si tratta di acrilici rigorosamente a spruzzo su tela) Questo essenzialismo di Ciancabilla, ha nella sua natura ontologica una ricerca non solo estetica ma psichica dell'ideale di bellezza femminile. La riduzione potremmo dire "a 8 bit" data dalla sua resintesi coglie e restituisce solo il volto delle donne incontrate e conosciute e a volte solo parte di esso, in una ulteriore selezione operata dalla memoria e dal desiderio della sua oggettivazione nella materia fisica esterna. Ma non è la psiche femminile ad essere al centro dell'attenzione bensì sempre e solo la propria esclusiva ed egocentrica fascinazione.

Tutto ha un prezzo ed il prezzo pagato da questa sottrazione del superfluo si fa notare. A partire dai corpi con le loro curve e caratteri sessuali, onnipresenti nelle opere della maggior parte degli artisti contemporanei, in Ciancabilla scompaiono in ombre indefinite, appena evocati dai riflessi sulle calze o silhouette in controluce. E pensare che almeno in un'opera precedente il pittore aveva reso persino omaggio al nudo più celebre della storia dell'arte, "L'origine del mondo" di Courbet! Ma il prezzo più alto pagato dalla ricerca della verità interiore, della sincerità espressiva del proprio mondo, è quella della semplificazione: i mondi delle donne dei quali noi uomini possiamo solo sospettare lo spessore e la vastità, vengono nelle opere di "Frisco" svuotati di ogni empatia, da ogni erotismo, perversione e trasgressione, ancora una volta come nel '300 sacrificati sul dorato altare della divinizzazione, "riassunte" nel loro più esteriore aspetto da modelle di riviste di moda, di una bellezza così intangibile e con lo sguardo "altrove" anche quando incontri i loro occhi. Così congelate, marmorizzate, scolpite digitalmente, questi volti sono pronti per essere proiettati in proporzioni colossali sui vetri dei grattacieli, stampate in ogni angolo della terra in milioni di esemplari, ricoprire il web con la loro universale piacevolezza. Ed è forse questo che accade nella ricerca di verità dell' Autore, perché se cerchiamo fortissimamente la verità siamo condannati a trovarla nelle cose semplici. Questo perché una verità complicatissima e quindi fragilissima non serve a nessuno, troppo esposta a critiche e derisioni di qualsiasi tipo, è troppo grande il rischio di vedersela distrutta prima o poi. La verità è semplificazione. La sua è una "verità" in dichiarata ricerca di una fama mondiale, appena mitigata da una ombra di malcelata ironia. E ne ha, oltre che tutta la licenza, anche la necessaria capacità.

Quando si approccia una estetica della semplicità, da intendere come essenzialità, [suggerisco questa etichetta all'amico Francesco, "essenzialista"!] si aprono due strade opposte: l'ulteriore perseguire la strada della riduzione fino a fermarsi un centimetro prima della tela bianca oppure scoprire tra le campiture uniformi, una minima crepa dalla quale riprendere ad accettare la complessità, per quanto sporca e bugiarda possa sembrarci.

E a me è sembrato di scorgere nei suoi dipinti  queste piccole crepe...

  'Black Hours'       di Nicolò Gianelli       

   Frisco exhibits at Emilia Ruvida, Modena    giugno 2014


Le opere e la vita di Francesco Ciancabilla sono una cosa sola. I quadri di Frisco non possono prescindere dalla sua storia controversa, sofferta e avventurosa. Quando ci siamo conosciuti non ho potuto fare a meno di chiedergli di Andy Warhol, Basquiat, Keith Haring. Erano i primi anni '80 e Francesco ha fatto parte della corrente degli enfatisti, anticipando l'arrivo del graffitismo in Italia. Ha conosciuto i grandi nomi di New York, detonando dall'America come un proiettile che ha perforato le tele di Bologna. La sua carne, la sua pelle. Le sue gambe hanno attraversato il Brasile, l'Europa, l'oriente. Ogni passo ha calzato la tela dei suoi quadri, dove il jazz, i nomadi, le donne, gli esclusi compongono il firmamento di tante stelle cadenti che sarebbero bruciate nello spazio dimenticato, se il suo pennello non li avesse impressi nella carta geografica del proprio vissuto. Scorci infuocati, scene dall'impatto violento eppure sfumato, come la scia di comete che attraverso la deflagrazione brutale disegnano delicate linee di luce. Stelle cadenti sorrette dalla pelle di Frisco. Altro che Decadentismo, ma "cadentismo". Una sigaretta, un paio di labbra, il sesso di una donna, un pugno - episodi precipitati come asteroidi sul corpo dell'artista e da esso immobilizzati in istantanee di sangue - buchi e ferite sulla carne, cicatrici in bianco e nero che Frisco porta con sé - una mappa di tatuaggi che non possono esulare dalla forma del suo corpo. Non sono tele autoreggenti, ma tele cadenti. Il tratto ne ricalca l'impatto, la potenza di un momento sulla pelle sensibile del pittore. Come un viveur nottambulo che si aggira mani in tasca aspettando che accada qualcosa, Francesco deve aver attraversato molte notti e molte strade, aspettando che le facce e le occasioni gli cascassero addosso per fermarle per sempre sulla tela – come se ogni istante di quei vagabondaggi insonni potesse racchiudere in sé un significato eterno. Il colore aggressivo eppure acquoso, i soggetti violenti e vulnerabili insieme. Lividi di un vissuto che diventa più sopportabile ora che c'è la mano dell'artista ad accarezzarli.   



   Sfumature di forza di intensità di vivacità.  di Daniela Amati

Testo critico nel catalogo della mostra al Circolo Aternino,  Pescara, sett. 2013

Li senti i brividi. Li senti irrompere sulla pelle. Le vedi le emozioni trascolorare i pensieri. Lo annusi il fiato della brutalità. Ti scuotono la rabbia il dolore la desolazione le urla. Come se nell’inferno dei sobborghi, dannati dalla contemporaneità, ci vivessi tu. Dimentico nell’abbandono. Ti rapiscono gli sguardi esanimi disperati e teneri. Come fossero i tuoi. Ti rapiscono anche quando nei suoi quadri le ombre, gli abbracci o i corpi nudi  nascondono i volti.  

Anzi è proprio allora che una carezza ti sfiora. E ti accorgi che una speranza c’è. Che la redenzione è possibile. E sei nei sogni di un bambino. Nelle note di un sax. O all’angolo di due strade. E sei nella magia delle sue opere. Delle tele che Francesco Ciancabilla firma con un nome dal sapore onomatopeico. Frisco. Che ricorda la libertà e la sincerità. E l’irruenza di chi riduce in poltiglia qualsiasi velleitaria ritrosia, ti afferra per un braccio e ti obbliga a guardare in faccia la realtà. Una realtà urbana e fotografica. Spesso in bianco e nero. Come quella che raccontava negli anni Ottanta, agli esordi. Quando c’era chi beveva l’esistenza, chi la divorava e chi la attraversava trasformandola. Come Francesco. Che in anticipo sui tempi e sulle mode definiva con la carta gommata netti precisi i confini dei suoi soggetti. E allora come oggi a poco a poco prende forma e vita l’unicità di un gesto, di una movenza. Così nascono i contrasti risoluti che t’imprigionano. Tecnica da graffitista. Sperimentata prima che gli stencil fossero utilizzati nella street art, ma senza la possibilità di riprodurre in serie le immagini. La stessa forza evocativa la riconosci anche nelle tonalità calde, nelle sfumature colorate. Che fanno pulsare il sangue nelle vene. E ti ci puoi perdere nel rosa rosso nell’arancio sabbioso nell’azzurro energico. Oppure ti ci puoi vestire. 


D i s c o !     di    Francesca Alinovi

             in DOMUS Architecture /Design/Art/Products/Salone 2013 

                    This article was originally published in Domus 638 / April 1983   /From the archive

In its April 1983 issue, Domus visits two discothèques in Bologna, and describes their intricate set design: scenic atmospheres where one can dance, listen to music, meditate, indulge in your own thoughts or go off into solitary fantasies. In the times of spectacular mass entertainment, special attention is being paid to the places where individual entertainment is measured, and most of all to discothèques. People no longer go to the disco just to dance or to hear good music, but to abandon themselves to subtle pleasures, to savour sophisticated recreation and adventure. Next to the need for personal exhibitionism, this entertainment also has to satisfy the craving for surprise fillips, the desire for psychophysical relaxation and total well-being. People are now more demanding in their request for pleasure, which is why discothèques are being transformed into specialized recreation workshops. Video screens and films are not enough to fill the empty pauses and  to offset the dangerous drops in tension. Fanciful and eccentric interior furnishing and decoration at present seem to be becoming the focal points of Force and allurement in the new discos. Highly theatrical designs waft pleasure-seekers into a heady film-set atmosphere whilst ensuring a multiplicity of functions. You can dance,listen to music,  watch films and videotapes, but you can meditate, too, indulge in your own thoughts or go off into solitary fantasies.   A project for a model discothèque, as rare and ephemeral as an oneiric flash, was recently realised, for one brief evening, by a group of young artists, designers and musicians in Bologna. Their object was to create a few unrepeatable hours of total recreation inspired by a combined aesthetic idea: that of a hybrid and delightful union of art, decoration, design, music and drinks on the frivolous temporal pretext of pleasure.      





The site chosen for the project, born as Frontiera party, was the Segreto Pubblico di Borgo Panigale, in itself a relegated place, in Bologna's industrial outskirts and located in the basement of a disused slaughterhouse and cattle market. Literally underground, the Segreto Pubblico was originally an electricity power unit and refrigerator cell, but is now used for entertainment purposes. Comprising two rooms in a state of neglect and "archaeological" ruin, it was entirely transfigured by the mural decorations of three artists, Ivo Bonacorsi, Francesco Ciancabilla and Gino Gianuizzi. These were all done with spray paints in the graffiti style. In a neo-primitive technological jungle, dinosaurs jostled with electric wires, gliders' wings in lava flows, and filiform snakes surfacing like sexual tentacles between the winding crevices of furnishings.

 The shaped neon lights and the mobile bar were installed by a group of designers, the Neons, who also did the cocktails. The disco-psychedelic-funky music was composed by the Etereodattili, a band specializing in improvisation and intuitive turning into the biological rhythms of the public on the dance floor. Next to this place of wild dancing was the entrance to a temple of meditation: a most intriguing domes grotto, painted all over with fluorescent colours (Egyptian-style decorations, a city in flames, a wheel of fortune); a musical sound track exploited the natural acoustic reverberations of this cave. A refuge for relaxation, solitude, fantastic ecstasy.  


Frontiera party at Segreto Pubblico, Bologna. Interior and lighting design by Ivo Bonacorsi, Francesco Ciancabilla, and Gino Gianuizzi. Photo by Alessandro Zanini. From the pages of Domus 638 / April 1983






Another disco, the Kinki, again in Bologna, has adopted a highly strangelike décor, this time a permanent one, by another young designer, Fabrizio Passarella, with the collaboration of Giovanni Marcotto. Made with props bought at Cinecittà that once belonged to the sets of Cleopatra and other epic films about Roman times, the premises are in a luxuriant Pompeiian mood, with half-columns, capitals and triclinia providing tables, chairs and couches, and two large plastic statues of Antinoo and Apollo standing over the dance floor. Surmounted by a sky-ceiling, the floor has taken on the iconographic conformation of a swimming-pool, for the ablutions of late-imperial baths.

 Indeed, despite the deafening music, it is possible to hear the sound of crystalline water gushing from a fountain, again in Pompeiian style, incorporated in the dance floor. Erotic frescoes on the walls, and neon lights screened by surfaces in grooved synthetic resin marked by ornamental volutes, complete the estranging décor of this interior, catering as much to frenzy as to Olympian calm.  


Frontiera party at Segreto Pubblico, Bologna. Interior and lighting design by Ivo Bonacorsi, Francesco Ciancabilla, and Gino Gianuizzi. Photo by Alessandro Zanini. From the pages of Domus 638 / April 1983

Enfatismo    di   Francesca Alinovi

da Flash Art nº 115 estate 1983
 

 Enfarte, il pianeta dell'enfasi che si fa arte: l'enfasi dell'estasi, l'estasi del mettersi in mostra

L'enfatia è come una malattia, è l'enfasi dell'estasi, è l'estasi del mettersi in mostra. È mostrarsi allo scoperto con l'enfisema sotto pelle, il morbillo dell'infanzia enfiatica, il gonfiore tumefatto dell'enfasi di sé che preme dentro i tessuti cellulari e soffia per esplodere al di fuori. Gli enfatisti sono degli enfanomani, megalomani dell'enfasi e malati di elefantismo, del gigantismo di sé, con piedi grossi da elefante e il telefono innestato nel cervello per sintonizzarsi sulle onde telenfatiche, le onde della telepatia dell'enfasi. Gli enfatisti pensano coi bubboni della pelle (assorbono il pensiero attraverso i pori dilatati), ragionano coi piedi d'elefante (ragionano alla grande) e sentono con le antenne radar del loro ego gonfiato. Tra enfatisti ci si riconosce subito. L'enfatia si trasmette come la simpatia e segue i movimenti dell'enfastico, il fantastico entusiastico di sé, la meraviglia dell'orgoglio infantilista dell'esibizionismo. Gli enfatisti sono però anche degli opportunisti e degli specialisti di enfaclopedismo e di mimenfatismo: specialisti di ciclopismo enciclopedico che li fa monocchieggiare tra le voci della vita stilizzata classificata dalle enciclopedie (tutte le vite possibili!), e specialisti di mimetismo enfatico, il camuffamento della propria enfasi ed estasi. Così loro si infiltrano nelle soffiate dell'esserci, più che starci davvero, e si insufflano nelle bolle gassose della vanità che ruota per orbite enfallittiche, le ellissi mancanti degli anelli di collegamento col reale. Loro soffrono perciò di afasia e di enfatudine, il morbo del silenzio e della solitudine, e si sentono minacciati dall'incubo dell'enfaclissi: l'eclissi dell'enfasi e l'apocalissi dell'enfatismo.Si difendono allora progettando un quartomondo extraterrestre al riparo dalla minaccia enfatomica: il pianeta dell' Enfarte, il pianeta dell'enfasi che si fa arte. 



Come quando perchè
 
Gli enfatisti sono un gruppo diviso in sottogruppi smembrati in indidualità egocentriche e esclusive. L'affinità nasce per simpatia, e la disciplina produce l'allergia. Il lavoro di tutti, però, è molto disciplinato e accuratamente progettato, e suona come sfida al dilettantismo di tanti artisti "professionisti". La professione degli enfatisti è quella di professarsi artisti "per natura", dal momento che loro, figli degli anni 58-60, sono nati per avventura già dentro alla cultura, la cultura naturalizzata e l'artificio addomesticato delle soglie del Duemila.
 Gli enfatisti si sono esibiti due volte quest'anno a Bologna nella galleria Neon, una a gennaio per il mio compleanno, un'altra a marzo durante Arte Fiera. Ma si erano anche già presentati per la prima volta a Pescara, nella galleria di Cesare Manzo, l'anno scorso, durante le feste di Natale del 1981-82 in una mostra chiamata Ora, e che doveva essere l'esibizione di un attimo. Poi si erano spartiti  i festeggiamenti in un party, chiamato Frontiera Party nell'aprile del 1982. Gli enfatisti amano le feste e amano le mostre, e si mettono sempre in mostra come ad una festa. Anch'io mi considero enfatista, perchè mi piace enfatizzare su di me, anche se la parola non è mia. La parola è nata assieme sulla bocca di tutti mentre tutti assieme bevevamo drinks moderatamente alcoolici e euforizzanti in un club di Bologna. L'enfatismo è una parodia dell'esistenzialismo, una stilizzazione dell'esistenza, un'enfasi maniacale della quotidianità più accesa.  

Francesco Ciancabilla, Senza titolo (autoritratto), 1983, vernice spray su tela.
da Flash Art nº115 pag. 26

Chi sono come sono cosa fanno
Francesco Ciancabilla fa pulsare in bianco e nero con tensione mozza fiato immagini di sé e immagini altruiste (altrui) rapinate tra gli amici e trofei di carne gonfiata, enfiatica, esibiti dalle riviste porno. Uominidonna, se stesso e altri da sé tesi allo spasimo in esplosioni fredde come il ghiaccio, trafitte da punte di icebergs. La violenza è soffice e patinata, come la violenza dello sguardo che accarezza ma non uccide, accarezza con avidità le immagini irragiungibili immaginate dalla fantasia dell'esistenza: l'esistenza truccata, l'esistenza fotografata, l'esistenza stilizzata dalla sua finzione spettacolare nel quotidiano.
[...]  



Francesco Ciancabilla, Senza titolo, 1983, vernice spray su tela
in Flash Art nº 115 pag. 22